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Il Solco che Separa

Un solco, quello che Romolo tracció per delineare i confini di Roma, una linea arbitraria che divide due stati, ma di due stati particolari stiamo parlando: la creatività e la pazzia .
L’immaginazione e la fantasia nascono dalla mente ed essere é l’unico stato che rende possibile la creazione, la dicotomia atavica che divide l’essere dall’apparire, nella fase della creazione e della messa in scena, é un’inutile e dannosa classificazione, in quanto apparire senza essere é un vano sforzo, che può portare solo ad una triste farsa.
Entrare nella scena appropriarsi del personaggio , pensare con la stessa mente é la strada giusta per rappresentare ed interpretare, ma rimanere con la consapevolezza della rappresentazione e quindi della finzione é l’unico mezzo che ci divide dalla pazzia.
Rappresentare un guerriero per quanto credibile non può esulare dall’evitare di infilzare o percuotere con una spada di fuoco l’attore di turno, si prova odio nei confronti dell’antagonista, ma si deve distinguere che non siamo noi attori che ci odiamo, ma solo i personaggi che rappresentiamo, e più il limite si assottiglia più la rappresentazione é ricca di pathos.
In fase di stesura del canovaccio lascio libera la mente, la lascio talmente libera da vincoli reali e fisici, solo in un secondo momento nella messa in scena reale si protende alla realizzazione di ciò che si è pensato.
La censura del pensiero é il peggior nemico dell’arte, la gravità la forza universale che tutto il cosmo comanda nulla può contro l’immaginazione, forse la fantasia é una mera invenzione, forse non esiste, certo taluni non hanno nemmeno la razio, e sono vincolati da limiti ottundenti che gli stringono la mente in recinto ovini, ma quella che viene normalmente chiamata fantasia e lo stato immaginifico profondo il vero pensiero slegato dall’esperienza e dalla nozione.
Per tutti gli altri esiste il plagio, Qualcuno che vorrebbe nobilitarlo ne parla come di citazione o ispirazione o di riferimento.
La vera citazione c’è è a volte é necessario che ci sia ma quando si crea si scardinano tutti gli assiomi per costruire una struttura instabile aerea voluttuosa a questo punto si scende a terra e la nostra ragione cerca di seguire le linee del sogno e della fantasia che di abbracciano e diventano spettacolo.

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Il teatro greco di Siracusa

da Sikania maggio 2008

Il genio architettonico ellenico non ha mai lasciato nulla al Caso, nessuna concessione, nessuno spazio a quel Fato che pure era così egemone ed ineluttabile in tutti i campi della vita umana e che tale risultava perfino per i numerosi ospiti dell’Olimpo.

 

E frutto di tale genio è certamente il teatro greco di Siracusa che venne costruito nella Magna Grecia nel V secolo a.C., lo stesso secolo felice in cui nacque all’Umanità la “ grande triade attica”, Eschilo, Sofocle, Euripide, i più grandi drammaturghi del mondo antico, in una parola, il Teatro. E di certo nessuna concessione fece al Caso l’architetto Damocopos che lo progettò: pensato esattamente perché destinato a nascere in quel luogo, sul colle Temenite, sotto quella luce, da cui l’arco del porto e l’isola di Ortigia cominciano ad offrirsi alla vista, esattamente in quel punto d’incontro delle energie contenute nell’otre di Eolo: perché avesse proprio quel riverbero, quella capacità di restituire i suoni, perché potesse dare quella forza all’immaginazione. Fatto con quelle pietre, eccelsa espressione dell’architettura teatrale e della tecnica scenica, è il mirabile risultato di un ampliamento di un primo armonioso incuneamento, in un’insenatura naturale creata dalla roccia nel punto in cui l’altipiano dell’Epipoli guarda verso la costa, che Ierone commissionò su un progetto di Agatocle, nel III secolo a.C. La cavea si estende su un diametro di 138 metri ed ha la capacità di accomodare 15.000 spettatori; i secoli ci hanno consegnato solo 46 dei 61maestosi ordini di gradini che in origine lo incoronavano.

Dunque da una sapiente ferita nella roccia nacque il Teatro Greco di Siracusa, con una ampiezza sul fronte di 35 metri chiusa ai lati da pareti perfettamente perpendicolari; crebbe dall’edificio scenico e dall’orchestra avvitandosi verso l’alto fino a creare la concavità del koilon. L’ordine superiore delle gradinate è separato da quello inferiore dal diazoma, un vasto ambulacro sulla cui cornice Ierone fece eternare i nomi delle divinità e di alcuni membri della sua famiglia, prezioso ausilio, quest’ultimo, per la collocazione cronologica dell’opera e dei successivi interventi. All’epoca di Ierone appartiene la realizzazione di un camminamento scavato sotto l’orchestra cui si accede da una piccola gradinata dal palcoscenico e che culmina in uno stanzino sotterraneo; si tratta delle “scale carontee” che consentivano inopinate scomparse o apparizioni degli attori:il teatro non ha mai saputo rinunciare alla magia.

 

Esistono ancora le tracce di una fossa per il sipario e quelle di ciò che molto probabilmente sorreggeva una piccola scena mobile, irrinunciabile deus ex machina, pardon, apò mekanés theòs. La cavea è sormontata da una terrazza, anch’essa ricavata dalla roccia,protetta da portici che potevano accogliere gli spettatori in caso di intemperie,cui si accedeva da una lunga trincea detta “Via dei Sepolcri”a causa della presenza lungo le sue pareti di edicole votive e sepolcri incastonati nella roccia; dietro alla terrazza è una grotta artificiale detta “ Ninfeo”, dedicata alle Muse.

 

Sembra che la famosissima tragedia “ I Persiani” di Eschilo abbia visto proprio su queste pietre la sua prima messa in scena e nel 476 a. C. vi furono rappresentate “ Le Etnee”, scritte per commemorare la fondazione di Etna (Catania) da parte di Ierone I L’Etneo.

 

Nel 1526 la parte superiore delle gradinate e l’edificio scenico furono inghiottite dall’ottusa necessità delle truppe al seguito di Carlo V che trovarono quei blocchi di pietra ideali per le fortificazioni che intendevano erigere intorno ad Ortigia.  Il teatro era ormai abbandonato e isolato dall’area abitata che si era concentrata nell’isola di Ortigia. Verso la fine dello stesso secolo un nobile signore del luogo, tale marchese Pietro Gaetani, fece riattivare l’acquedotto che raggiungeva la sommità del teatro e diversi mulini sorsero sulla cavea, dove ancora si trova la “ casetta dei mugnai”. Contestualmente fu avviata una campagna di scavi che si ripetè nei primi anni dell’Ottocento con Francesco Saverio Landolina; l’attività e l’attenzione degli archeologi e del mondo accademico furono pressocché ininterrotte, ma i momenti più significativi si ebbero con Bulle, subito dopo la grande guerra e con Carlo Anti subito dopo il secondo conflitto mondiale.

 

Furono infine la ripresa delle rappresentazioni di teatro classico grazie all’iniziativa dell’INDA (il 16 aprile del 1914 vi fu rappresentato “Agamennone” di Eschilo) e l’istituzione del Parco Archeologico, negli Anni Cinquanta, a riportare definitivamente “in vita” il teatro di pietra abbandonato per secoli sotto il cielo di una terra che tutti vogliono ma che pochi hanno la forza di amare.

Un teatro nasce dalla necessità più elevata che abbia mai spinto gli uomini alla costruzione di un’opera, la voglia di imitare la vita terrena e di raggiungere quella celeste: origine della tragedia greca fu il ditirambo, il veemente canto corale dedicato al dio del vino e della gioia, il più divino fra gli dei perché così vicino all’umano e, se sei nato per questo, le pietre di cui sei fatto sapranno per sempre commuovere chi le sta calpestando. Per tutto questo ed indipendentemente da tutto questo il teatro greco di Siracusa conserva ai propri visitatori la sua prima essenza: quella di un tempio consacrato ad un dio trasgressivo che seppe riconquistare attraverso i suoi cortei orgiastici un ordine “altro”, dove l’umanità vive appieno la grandezza della propria anima. (anna gelsomino)