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STORIE DELLA STORIA

In ogni piazza abbiamo un rendez-vous con la Storia; essa ci precede e ci attende sotto ogni portico, in ogni esedra, in ogni ambulacro, ovunque ci sia una pietra che abbia memoria, di millenni o di secoli; in ogni luogo che abbia ricevuto il pertinace rispetto necessario per raccontare, poiché la terra tutta se non riceve rispetto e cura per la propria memoria smette di raccontare,  in silente protesta a castigo dei posteri poco avveduti.

Noi giungiamo in ogni piazza, rispettosi osservanti di questo appuntamento. Dai nostri bauli emergono i costumi che ci permettono di indossare l’anima di ogni personaggio che abbia lasciato su quelle pietre un’impronta di vita; ogni cimiero posto sul capo dei nostri attori, ogni velo che percorre il corpo delle nostre attrici, ogni drappo ci permettono di incontrare e riassumere sull’interprete il coraggio di un condottiero, il fascino di una nobildonna, il clamore di una battaglia, la fatica di vivere di un plebeo.

Percorriamo lunghissime strade: compagni di viaggio l’entusiasmo e la fantasia, bagaglio le leggende e gli episodi più affascinanti che hanno scritto il passato su un supporto imperituro e inerrabile: la memoria dei popoli.cavallo sui trampoli

La storia è lì, ad attenderci puntuale ed immancabile sulla piazza, le pietre sono lì a raccontare, palcoscenico e protagoniste ad un tempo, sono lì a restituire ogni pensiero che hanno catturato, ogni timore ogni proposito che le abbia attraversate, ogni moda ogni idea di cui si sono imbevute: le pietre a renderci la storia con una generosità senza riserve.

Al termine del viaggio, l’incontro più importante, quello più emozionante: la cercavamo, ci aspettava: la Piazza, ricolma di storia, adorna di memorie.

Teatro del Ramino a Firenze

parata spettacolo Promenade Baroque a Firenze

Il primo sguardo è determinante, da come ci accoglie dall’intensità con cui pulsa sotto i nostri passi, dal calore del suo abbraccio, dalla luce o dalle ombre di cui si ammanta, ci giungono le informazioni di cui abbiamo bisogno: tutto questo ci rende edotti di ciò che volevamo sapere; ci indica quale sarà l’angolo più disponibile ad accogliere il nostro transeunte camerino, ci informa su quale sarà la porzione da illuminare e quella da riservare all’ombra, ci dice in quale anfratto nascondere gli innocenti ordigni da cui si leveranno gli scoppiettanti ricami di fuoco che conquisteranno la meraviglia del nostro pubblico facendone svettare gli sguardi verso il cielo. Da lei, dalla nostra ineffabile ospite, la Piazza, sappiamo tutto questo, ed è tutto quello che ci occorre: subito dopo il tempo che scorre irrefrenabile ed indifferente ci dice che è l’ora. Adesso in scena, sui trampoli, lassù per mettere in mostra la storia, perché tutti possano vederla e riviverla; in alto sui trampoli ad interpretare la storia e a far vivere la leggenda, in alto sui trampoli perché nessuna emozione rimanga celata.

la pazzia di Astolfo

Astoflo, I Pupi Siciliani, nella versione del Teatro del Ramino

L’emozione donata dal riverbero delle nostre spade infiammate, quella che promana dai colori dei nostri costumi e dagli strumenti appresi dall’iconografia del tempo in questione, quella che viene dalle parole recitate che danno forza e senso alla nostra drammaturgia, l’emozione di veder vivere di nuovo i protagonisti della storia sui nostri trampoli. Tutto questo è il nostro rievocare: chiamare in scena la Storia; rievocare è quell’appello energico ed imperioso che il presente rivolge al tempo che è stato, quel richiamare e ricreare che alcuni decenni or sono costituiva lo strumento d’avanguardia della didattica  mitteleuropea e che oggi è diventata patrimonio comune di ogni luogo che ami e rispetti la sua storia nella convinzione pascoliana che è anche speranza: “ il futuro ha un cuore antico”.

pupi_spettacolo

Latrina Medievale Astolfo il Viaggio la Pazzia, saluti finali

Rievocare è oggi la maniera consolidata che hanno i luoghi più interessanti del mondo di accogliere i propri visitatori e ad essi raccontarsi per farli viaggiare attraverso il tempo nel suo trascorrere e attraverso i tempi nel loro riproporsi e noi siamo lì sui trampoli a narrare le storie della Storia. Non la storia strumentale e partigiana dei vincitori, ma la Storia della storia, la Storia che non mente, la Storia testimone, genesi di cultura e di peculiarità, quella della locuzione che nel De Oratore di Cicerone  ne afferma la funzione ammaestratrice, l’Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis ( la storia testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria , maestra di vita, messaggera dell’antichità.) quella storia la cui azione è più significativa è quella di costituire  “  una guerra illustre contro il Tempo, perchè togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia…”

spettacolo Pupi Siciliani

lo spettacolo sui trampoli del Teatro del Ramino dei Pupi Siciliani

E lo spettacolo della storia va in scena sui trampoli con in cima noi viaggiatori del tempo, in compagnia degli umili e dei grandi che tutti insieme l’hanno scritta sulle pietre e continueranno a scriverla, sotto la minaccia costante di quell’arma invincibile che il tempo usa contro tutti noi, ma che è anche l’unico mezzo per viaggiarvi attraverso: lo strumento che conta le ore, che misura il tempo dalle torri di ogni piazza: omnia ferint ultima necat, questo gli antichi dicevano delle ore.

 

Anna Gelsomino

Il Solco che Separa

Un solco, quello che Romolo tracció per delineare i confini di Roma, una linea arbitraria che divide due stati, ma di due stati particolari stiamo parlando: la creatività e la pazzia .
L’immaginazione e la fantasia nascono dalla mente ed essere é l’unico stato che rende possibile la creazione, la dicotomia atavica che divide l’essere dall’apparire, nella fase della creazione e della messa in scena, é un’inutile e dannosa classificazione, in quanto apparire senza essere é un vano sforzo, che può portare solo ad una triste farsa.
Entrare nella scena appropriarsi del personaggio , pensare con la stessa mente é la strada giusta per rappresentare ed interpretare, ma rimanere con la consapevolezza della rappresentazione e quindi della finzione é l’unico mezzo che ci divide dalla pazzia.
Rappresentare un guerriero per quanto credibile non può esulare dall’evitare di infilzare o percuotere con una spada di fuoco l’attore di turno, si prova odio nei confronti dell’antagonista, ma si deve distinguere che non siamo noi attori che ci odiamo, ma solo i personaggi che rappresentiamo, e più il limite si assottiglia più la rappresentazione é ricca di pathos.
In fase di stesura del canovaccio lascio libera la mente, la lascio talmente libera da vincoli reali e fisici, solo in un secondo momento nella messa in scena reale si protende alla realizzazione di ciò che si è pensato.
La censura del pensiero é il peggior nemico dell’arte, la gravità la forza universale che tutto il cosmo comanda nulla può contro l’immaginazione, forse la fantasia é una mera invenzione, forse non esiste, certo taluni non hanno nemmeno la razio, e sono vincolati da limiti ottundenti che gli stringono la mente in recinto ovini, ma quella che viene normalmente chiamata fantasia e lo stato immaginifico profondo il vero pensiero slegato dall’esperienza e dalla nozione.
Per tutti gli altri esiste il plagio, Qualcuno che vorrebbe nobilitarlo ne parla come di citazione o ispirazione o di riferimento.
La vera citazione c’è è a volte é necessario che ci sia ma quando si crea si scardinano tutti gli assiomi per costruire una struttura instabile aerea voluttuosa a questo punto si scende a terra e la nostra ragione cerca di seguire le linee del sogno e della fantasia che di abbracciano e diventano spettacolo.

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Il teatro greco di Siracusa

da Sikania maggio 2008

Il genio architettonico ellenico non ha mai lasciato nulla al Caso, nessuna concessione, nessuno spazio a quel Fato che pure era così egemone ed ineluttabile in tutti i campi della vita umana e che tale risultava perfino per i numerosi ospiti dell’Olimpo.

 

E frutto di tale genio è certamente il teatro greco di Siracusa che venne costruito nella Magna Grecia nel V secolo a.C., lo stesso secolo felice in cui nacque all’Umanità la “ grande triade attica”, Eschilo, Sofocle, Euripide, i più grandi drammaturghi del mondo antico, in una parola, il Teatro. E di certo nessuna concessione fece al Caso l’architetto Damocopos che lo progettò: pensato esattamente perché destinato a nascere in quel luogo, sul colle Temenite, sotto quella luce, da cui l’arco del porto e l’isola di Ortigia cominciano ad offrirsi alla vista, esattamente in quel punto d’incontro delle energie contenute nell’otre di Eolo: perché avesse proprio quel riverbero, quella capacità di restituire i suoni, perché potesse dare quella forza all’immaginazione. Fatto con quelle pietre, eccelsa espressione dell’architettura teatrale e della tecnica scenica, è il mirabile risultato di un ampliamento di un primo armonioso incuneamento, in un’insenatura naturale creata dalla roccia nel punto in cui l’altipiano dell’Epipoli guarda verso la costa, che Ierone commissionò su un progetto di Agatocle, nel III secolo a.C. La cavea si estende su un diametro di 138 metri ed ha la capacità di accomodare 15.000 spettatori; i secoli ci hanno consegnato solo 46 dei 61maestosi ordini di gradini che in origine lo incoronavano.

Dunque da una sapiente ferita nella roccia nacque il Teatro Greco di Siracusa, con una ampiezza sul fronte di 35 metri chiusa ai lati da pareti perfettamente perpendicolari; crebbe dall’edificio scenico e dall’orchestra avvitandosi verso l’alto fino a creare la concavità del koilon. L’ordine superiore delle gradinate è separato da quello inferiore dal diazoma, un vasto ambulacro sulla cui cornice Ierone fece eternare i nomi delle divinità e di alcuni membri della sua famiglia, prezioso ausilio, quest’ultimo, per la collocazione cronologica dell’opera e dei successivi interventi. All’epoca di Ierone appartiene la realizzazione di un camminamento scavato sotto l’orchestra cui si accede da una piccola gradinata dal palcoscenico e che culmina in uno stanzino sotterraneo; si tratta delle “scale carontee” che consentivano inopinate scomparse o apparizioni degli attori:il teatro non ha mai saputo rinunciare alla magia.

 

Esistono ancora le tracce di una fossa per il sipario e quelle di ciò che molto probabilmente sorreggeva una piccola scena mobile, irrinunciabile deus ex machina, pardon, apò mekanés theòs. La cavea è sormontata da una terrazza, anch’essa ricavata dalla roccia,protetta da portici che potevano accogliere gli spettatori in caso di intemperie,cui si accedeva da una lunga trincea detta “Via dei Sepolcri”a causa della presenza lungo le sue pareti di edicole votive e sepolcri incastonati nella roccia; dietro alla terrazza è una grotta artificiale detta “ Ninfeo”, dedicata alle Muse.

 

Sembra che la famosissima tragedia “ I Persiani” di Eschilo abbia visto proprio su queste pietre la sua prima messa in scena e nel 476 a. C. vi furono rappresentate “ Le Etnee”, scritte per commemorare la fondazione di Etna (Catania) da parte di Ierone I L’Etneo.

 

Nel 1526 la parte superiore delle gradinate e l’edificio scenico furono inghiottite dall’ottusa necessità delle truppe al seguito di Carlo V che trovarono quei blocchi di pietra ideali per le fortificazioni che intendevano erigere intorno ad Ortigia.  Il teatro era ormai abbandonato e isolato dall’area abitata che si era concentrata nell’isola di Ortigia. Verso la fine dello stesso secolo un nobile signore del luogo, tale marchese Pietro Gaetani, fece riattivare l’acquedotto che raggiungeva la sommità del teatro e diversi mulini sorsero sulla cavea, dove ancora si trova la “ casetta dei mugnai”. Contestualmente fu avviata una campagna di scavi che si ripetè nei primi anni dell’Ottocento con Francesco Saverio Landolina; l’attività e l’attenzione degli archeologi e del mondo accademico furono pressocché ininterrotte, ma i momenti più significativi si ebbero con Bulle, subito dopo la grande guerra e con Carlo Anti subito dopo il secondo conflitto mondiale.

 

Furono infine la ripresa delle rappresentazioni di teatro classico grazie all’iniziativa dell’INDA (il 16 aprile del 1914 vi fu rappresentato “Agamennone” di Eschilo) e l’istituzione del Parco Archeologico, negli Anni Cinquanta, a riportare definitivamente “in vita” il teatro di pietra abbandonato per secoli sotto il cielo di una terra che tutti vogliono ma che pochi hanno la forza di amare.

Un teatro nasce dalla necessità più elevata che abbia mai spinto gli uomini alla costruzione di un’opera, la voglia di imitare la vita terrena e di raggiungere quella celeste: origine della tragedia greca fu il ditirambo, il veemente canto corale dedicato al dio del vino e della gioia, il più divino fra gli dei perché così vicino all’umano e, se sei nato per questo, le pietre di cui sei fatto sapranno per sempre commuovere chi le sta calpestando. Per tutto questo ed indipendentemente da tutto questo il teatro greco di Siracusa conserva ai propri visitatori la sua prima essenza: quella di un tempio consacrato ad un dio trasgressivo che seppe riconquistare attraverso i suoi cortei orgiastici un ordine “altro”, dove l’umanità vive appieno la grandezza della propria anima. (anna gelsomino)